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Una nota per Marco Vecchio
Massimo Bignardi

Due sono i dati che caratterizzano il lavoro di Marco Vecchio ed è facile rilevarli analizzando l'esperienza creativa di questi ultimi anni, in pratica dopo aver sfogliato uno dopo l'altro parecchi di quei grandi cartoni che il giovane artista tiene accatastati nello studio di via Tasso a Salerno, realizzati dal 2001 al 2003. Ciò che vi emerge è una cifra, più che un vero e proprio carattere, (sarebbe prematuro data la giovane età), pronta, però, già a segnalare una certa autonomia di linguaggio, vale a dire un modo di porsi rispetto sia al dibattito oggi in corso nell'arte sia alle pratiche creative, più che mai sobillate da nuovi confronti con la tecnologia. Il primo dato è l'amore profondo per la pittura, per la sua natura ancestrale che da millenni intesse le relazioni fra lo sguardo e l'immaginario. Per Marco, ( lo si intuisce dal suo insistere su uno stesso tema svolgendolo come una sorta di ciclo), la pittura non è solo esercizio formale, uso equilibrato o no di una sintassi espositiva,quanto desiderio o necessità di scoprire uno spazio ulteriore, posto al di là della cerniera del piano, oltre la soglia delle apparenze. Si serve della pittura per discutere ad alta voce, quasi come un gesto di liberazione e al tempo stesso di sfida: dipingere per costruire una realtà autonoma, con lo stesso spirito della tradizione delle avanguardie del primo novecento, senza piegare minimamente la testa, cioè senza cadere nelle sacche di una pittura compiaciuta del suo confronto con il referente. Se la pratica quotidiana lo spinge a rapportarsi con la superficie, sia essa della tela, del cartone, sia quella convessa o concava della ceramica, dei vasi, dei piatti che in gran quantità gremiscono gli scaffali, la scelta di operare sul dato emotivo del colore, e (un esempio notevole è offerto da Volto notturno, una tecnica mista dello scorso anno), incanala le sueopere verso uno stravolgimento ideale di essa, partecipando alla costruzione di una dimensione lirica, ove le immagini, (per Marco icone), acquistano un corpo, divengono figure che abitano lo spazio emotivo della pittura. L'altro dato è offerto dalla costante attenzione rivolta dall'artista alla figura, in particolare ad un ideale ritratto, sviluppato all'interno del dettato pittorico con un preciso taglio che, con chiari richiami, si sposta da Antonello da Messina ai maestri veneti del xv secolo, a Matisse. Il passaggio da una posa leggermente obliqua di profilo, si vedano in tal senso lavori quali Ritratto, Volto collage entrambi del 200 o anche Volto allo specchio del 2002 ad una dichiarata ed accentuata, nel tratto compositivo, frontalità evidenzia come, nell'arco di 2 anni Marco Vecchio abbia spinto sull'idea di una figura presente, insomma di un corpo che verificasse realmente, movendosi, l'abitabilità dello spazio pittorico. Il ritratto o meglio come avrebbe dettoGombrich, la percezione di ciò che è costante dietro all'apparenza mutevole è interpretato da Marco Vecchio di volta in volta come misura di un incontro, cioè quale annotazione di un frammento narrativo ove il soggetto posa più volte, cedendo solo a minime varianti offerte come suggerimenti di una fisionomia viva. La pittura è per Marco esercizio del vedere, ovvero dello svelare il luogo. "Quando guardo le cose - diceva Andy Warhol -, vedo sempre lo spazio che occupano". Il soggetto e lo spazio che lo ospita divengono unità inscindibili e su tale presupposto Marco torna più volte, lo fa fino ad azzerare la pittura, riconducendola all'essenzialità del disegno, al segno nero con il quale "colora" i vasi, i piatti cercando di comprendere la portata innovativa dell'opera ceramica Picasso. Fa tutto ciò con convinzione, senza nostalgia e soprattutto senza vivere il disagio nei confronti della tecnologia e della scienza, delle affascinanti sollecitazioni proposte dalla tavolozza digitale.

La ceramica tatuata
Gabriella Taddeo

Nei corpi d'argilla come nelle icone, Marco Vecchio fa confluire costantemente una eccedente vitalità pittorica, quasi una sorta di inusitata passionalità cromatica". Così nei suoi grandi vasi, nei piatti, in tutte le sue terre dipinte, supporto al suo vigore decorativo, emerge l'accostamento netto delle tonalità che determina un singolare risultato di reciproca esaltazione. Sono i medesimi effetti che contraddistinguono i mosaici e le miniature bizantine in diversificati periodi delle arti visive. "I colori son quasi parole che percepite cogli occhi penetrano nell'animo non meno delle voci percepite dalle orecchie", così affermava con estrma acutezza il Cardinale Federigo Borromeo nel 1625. Ed è proprio l'intento di questo artista perseguire un vero e proprio anche se personalissimo linguaggio onirico coloristico, una sorta di scrittura crittocromatica dalla visionarietà a tinte forti. I segni, primancora che per la forma o per la decodifica dell'immagine disegnata scuotono il fruitore per i loro contrasti puri, per la veemenza luminosa e determinata da una vasta gamma tonale che vadal nero all'ocra, all'arancio fino al rosso. I maestosi vasi in terra bruciata e nero rinviano con ironica giocosità a remoti classicismi dal sapore classicista, mentre la vivacità di altri colori rimanda ad esotismi di terre d'oltreoceano dalle tradizioni anch'esse millenarie. Ma non si tratta, certamente, di un banale esotismo di maniera, né di facili evasioni pittoriche bensì di una ricerca forse anche un po' reiterata ed ossessiva di segni proiettati verso l'innovazione, verso il futuro della decorazione, pur con uno sguardo a passati arcaici, a mondi lontani e seducenti, riattraversati acutamente fino ad attulizzarli. Fra le forme geroglifiche ed i graffiti geometrizzanti si leggono fisionomie di volti riconoscibili ma indefiniti, asessuati, gioiosi esseri viventi senza alcuna determinazione certa, senza nome o identità. Superando la componente individualizzante e soggettiva i volti di questo giovane artista seguono una tendenziale trasfigurazione,divenendo parte integrante di una tonalità coloristica, di un equilibrio pittorico particolarissimo. I suoi volti sono vivi, brillanti ma senza sguardo, Il che lascia pensare al serpeggiare minimo di un inquietudine. E nel passaggio dalla bidimensionalità della superficie dell'opera al corpo tridimensionale dell'argilla, i colori si fondono nella terra, assumendo ulteriori e nuove tonalità di cui quella predominante e fondamentale è rappresentata dalla materia stessa. L'artista concede al cotto ampie pause estensive che si alternano agli smalti in un sacrale omaggio all'arte antichissima dei vasai: di tale arte non la manipolazione e l'impasto gli appartengono ma la fase finemente creativa che è quella del decorare. Fase che apporta alla struttura nuda del vaso o del manufatto il vero movimento visivo- estetico, essenziale affinchè la fruizione non sia puramente di un oggetto artigianale ma di un'opera pienamente e più esaustivamente artistica.

" . . .Rappresentazione faticosa e leggera, quasi con scarpe pesanti la nostalgia di una danza: il girare attorno all'idea di una maschera che è già volto ( Marco Vecchio). . ."
Rino Mele, Cronache del Mezzogiorno, 16-4-1999

". . .L'immensità Marco Vecchio la rappresenta attraverso le pieghe della scrittura cromatica, pieghe raccontate nella solitudine del segno della pittura, dove la capacità è quella di avvicinare l'immaginario mitico, assemblando purezza ed ironia, giocosità e pudore, spavalderia e malinconia. Insomma uno spaccato di sensazioni, impressioni e visioni che l'artista ha voluto selezionare e, successivamente mettere in "forma di quadro" con il linguaggio , visionario e passionale della migliore produzione pittorica. . ."
A .Amendola, Carte di Sicilia, Acireale, 2001

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